La presidente di Confesercenti Patrizia De Luise intervistata sulle pagine del Tirreno. Il punto sulla situazione delle imprese, ormai stremate dalle misure restrittive dovute all’emergenza Covid.
Di seguito l’intervista alla presidente De Luise.
«Le imprese sono stremate e non possono aspettare un altro mese». Sono le parole accorate della presidente nazionale di Confesercenti, Patrizia De Luise, che chiede immediati aiuti economici per le attività del settore, a partire dai cosiddetti ristori attesi ormai da due mesi e che ammontano, a livello nazionale, a 32 miliardi .
Ma nello stesso tempo chiede da subito anche un cambio di rotta al governo: «Se si parla di nuove chiusure è perché le restrizioni alle imprese non bastano a contenere l’epidemia, oltre a essere una soluzione insostenibile per l’economia. Dobbiamo puntare con maggior forza sul vaccino: il governo deve spostare la sua azione dai decreti di chiusura all’organizzazione di una campagna vaccinale a tappeto che permetta all’economia di normalizzarsi».
I dati di Confesercenti evidenziano un’emorragia devastante di imprese e di posti di lavoro. Nel 2020 hanno perso la propria occupazione 204mila autonomi tra imprenditori (meno 80mila), professionisti (meno 50mila) e loro addetti (meno 74mila).
A un anno dall’inizio, quanto ha inciso la pandemia sulle vostre attività?
«Alle famiglie italiane sono venuti a mancare, in media e nonostante i numerosi ristori, 1.650 euro di redditi su base annuale. E le prospettive di recupero sono lente e dipendenti dagli esiti della campagna vaccinale, attualmente in ritardo sugli obiettivi fissati: continuando così, a fine 2021, secondo le nostre stime il reddito medio sarà ancora 512 euro inferiore ai livelli precrisi. Le criticità, però, non si sono abbattute con la stessa forza su tutte le categorie. A soffrire di più sono i lavoratori autonomi, per i quali la perdita di reddito a fine 2020 sarebbe di circa 44 miliardi e risulterebbe ancora pari a meno 27 miliardi nel 2021. E i lavoratori dipendenti del settore privato che registrano una caduta di 43 miliardi. Mentre si registra un aumento di 2,5 miliardi per i dipendenti pubblici, trainato dalle assunzioni nel comparto sanitario».
Ma le imprese erano già in sofferenza prima dell’emergenza del Coronavirus
«Si, la pandemia non ha fatto altro che far venire i nodi al pettine. Oltre al potere d’acquisto delle famiglie, che è diminuito negli anni, da tempo scontiamo la concorrenza sleale del commercio online. Il pluralismo commerciale non ci spaventa. Anzi , fa bene. Il problema, però, è che noi paghiamo le tasse e contribuiamo all’erogazione dei servizi nel nostro paese. E gli altri “giocano” con regole diverse. In più le imprese sono tutte importanti e voglio ricordare chele nostre, le piccole, sono quelle che hanno il maggior numero di addetti nel paese. Ma, dall’altra parte, la tassazione, la formazione professionale, l’innovazione non vengono cucite addosso ai diversi tipi di aziende. Si agisce come se fossero tutte uguali, indipendentemente dalle loro dimensioni. E allora si fanno i disastri come sono stati fatti».
Ora quali sono le vostre priorità?
«Prima di tutto voglio specificare che gli aiuti, comunque, devono essere considerati tali e non elemosine. Finora le nostre imprese hanno avuto sostegni che sono bastati per alcuni mesi. Mentre, invece, i nostri imprenditori fronteggiano una crisi che dura da un anno. E anche se a periodi hanno riaperto non hanno mai lavorato a pieno ritmo. Abbiamo avuto aiuti una tantum, uguali per tutti e non calcolati sulle perdite, come i 600 euro. Poi un contributo a fondo perduto e i finanziamenti garantiti dallo Stato su cui le banche hanno risposto in maniera diversa (anche pensando di utilizzare questi soldi per chiudere gli scoperti che le nostre aziende avevano prima del Covid). Sostegni che, in ogni caso, ci hanno garantito ossigeno momentaneo ma non per fronteggiare una situazione che va avanti da un anno. Ora siamo in attesa dell’erogazione dei 32 miliardi che con la crisi di governo ancora non si è materializzata a oltre sessanta giorni dall’annuncio. Una situazione incredibile ed inaccettabile che crea sconcerto e sfiducia negli imprenditori e nei loro dipendenti. E che blocca qualsiasi prospettiva di ripresa. Bisogna comunque sottolineare che l’economia riparte solo con i vaccini. A oggi ha ricevuto almeno una dose di vaccino solo il 6,6% della nostra popolazione. Negli Stati Uniti è stato vaccinato oltre il 20% degli abitanti, nel Regno Unito quasi il 30%, in Israele il 90%. Questi paesi stanno uscendo dall’incubo, noi ci stiamo ripiombando quando i vaccini avrebbero dovuto proteggerci».
Ristori e vaccini sarebbero sufficienti per le vostre aziende?
«No chiaramente. Per esempio abbiamo chiesto l’attuazione di una diverso criterio per il credito di imposta sull’affitto di cui abbiamo usufruito quando ci sono state le chiusure, nella prima ondata, e che comunque ha inciso fino a un certo punto perché se le imprese non lavorano è relativo il beneficio che possono avere da una decurtazione delle tasse. Sarebbe importante, piuttosto, avere uno sconto sul canone che noi paghiamo con l’applicazione del credito di imposta ai proprietari dei fondi. E questa richiesta l’abbiamo già formulata al governo».
Rispetto alla tassazione invece?
«Chiediamo uno stralcio o una riduzione proporzionale alle perdite rispetto alle tasse e ai contributi che dobbiamo pagare all’Inps perché al momento in cui ripartiremo i bilanci delle nostre aziende non saranno così floridi, come se in questo anno di pandemia non fosse accaduto nulla. E le nostre aziende devono essere pronte e in salute alla ripartenza».
E sul blocco dei licenziamenti che ne pensa?
«La misura del blocco dei licenziamenti non potrà essere prorogata ad oltranza. Quando terminerà dovranno essere già in campo forti misure di decontribuzione e di detassazione per le imprese che manterranno l’occupazione, e per tutti un’ulteriore riduzione del cuneo fiscale, rinnovi contrattuali ad esenzione di imposta e nuove regole per il tempo determinato. Ma non si può continuare a chiedere alle imprese di mantenere l’occupazione se le attività in questione non hanno il permesso di lavorare».